Metrica: interrogazione
522 endecasillabi (recitativo) in La contessina Venezia, Fenzo, 1743 
Vieni fra le mie braccia, amato figlio,
della mia tenerezza. All’amor mio
non corispondi no. Sei giorni sono
che in Venezia sei giunto ed oggi solo
a me veder ti lasci? Ah figlio amato,
quanto piansi per te! Sei un ingrato.
                                       Ma se Cupido
ha ferito il tuo cor, perché non dirlo?
Purtroppo a mio rossor me lo rammento.
                                             Ella è la figlia
                                       Ohimè! Conosco
la superbia, la boria ed il maltratto.
                                        Anzi m’adora;
                                        Oh bella!
                                                           Io dico
ch’ella non mi conosce per Lindoro,
di Pancrazio figliuolo; ella mi crede
ch’abbia il titolo illustre di marchese.
                                  Ci ritrovammo
nel burchiello di Padoa, a caso, insieme.
La contessa mi piacque e in lei veggendo
predominar un certo fasto altero,
mi finsi, per piacerle, un cavagliero.
titoli in quantità superlativi,
invitommi al suo alloggio; amor mi fece
il partito accettar; la contessina
mi diè segni d’amor, mi vuol suo sposo
e l’acconsente il padre suo; ma entrambi
credonmi cavaliero ed a momenti
n’attendono le prove a lor promesse.
Padre, ricorro a voi; deh voi, che amate
porgetemi il soccorso ed il consiglio.
Ecco pronto il consiglio, ecco il soccorso;
io son mercante, è ver, ma ricco sono;
molte figlie aspirar di sangue illustre,
a Baccellone chiederò la figlia
                                      Ma se la niega?
Deh! Non mi discoprite inanzi tempo.
                                            T’achetta. Io sono
di te più vecchio e più sagace; anch’io,
giovine e amante fui come tu sei.
che inamorar fa due persone in scena.
Ciò si può dar purtroppo ed io son quello
che ne fe’ l’esperienza in un burchiello.
precedetemi entrambi ed inchinati
fate spalliera alla padrona vostra.
                                                 Ai so comandi,
                                             Eh dimmi, dimmi;
vedesti tu quel cavalier lombardo
come fissò nelle mie luci il guardo?
gatto maimon che fa la cazza al sorze.
Quanto gli occhi fissò nel mio sembiante!
El stava là come una barca in secco.
Ma vi vuol altro. Un mercantuccio amante
non è per me; non è per il mio grado
un cavalier di nobiltà mezzana;
io nacqui dama e morirò sovrana.
Certo se fusse un re, alla mia patrona
mi el scettro ghe darave e la corona.
certe donne plebee che voglion farla
Si vede ch’io non son nata dal fango.
che l’è nata tra l’oro e tra el zibetto.
Guarda se non m’inganno; ah sì gli è desso;
dell’amor mio. Vanta fra’ suoi maggiori,
seicento e più persone titolate.
Schienza! Co l’è cusì la compatisso.
So el mio dover al par di chi se sia.
Daggo liogo alla sorte e vaggo via. (Parte)
Ehi Lesbin, ehi Taccone; ite, alla porta
il marchese che giunge ricevete.
Sapete il dover vostro o nol sapete?
che tutto il galateo ritiene in mente,
è cosa da morir con questa gente.
                                            Addio marchese.
                           Anzi sì.
                                           Che bella mano!
Da tanti e tanti sospirata invano.
A voi che siete un cavalier bennato.
(Oh se mi conoscesse!) E se non fossi
                                    De’ miei sospiri
degno voi non sareste; io vi odierei.
Vi scordereste dell’amor...
                                                 Che amore?
che far un sì gran torto agli avi miei.
Ma parliam d’altro. Voi nobile siete,
                       Senz’altro. Il dissi già.
(Vuol durar poco la mia nobiltà).
Dormiste ben nella passata notte?
          Sospirate?
                                Sì.
                                        Ma perché mai?
Sospirando e tacendo io dissi assai.
              Ma pure a sospirar vi ascolto.
Quando vi dissi ohimè, vi dissi molto.
Ah v’intendo, v’intendo.
                                              Ah, sì, capisco,
cara, del vostro cor la bella face.
                                         Voi la mia pace.
andavate sì tosto e sì soletta?
la marchesa Fracassi, indi m’attende
la prencipessa dell’Orgasmo. Io devo
poi visitar la cavagliera Altura,
indi dalla duchessa mia cugina
andavo a terminar questa mattina.
vi servirò da queste gran signore.
Oh caro marchesin, mi fate onore.
                         Scusate, è netto il guanto?
che se toccassi un guanto poco netto
mi sentirei tutto sconvolto il petto.
                                   Oh! Contessina,
                          M’inchino al conte padre.
Diverse dame a visitar stamane
                                   Ma come, a piedi?
La gondola non v’è; disse Gazzetta
                                   E ben, restate in casa.
stupefatta le sue liquide ciglia
a piedi rimirando una mia figlia.
                                             Anch’io l’approvo.
                          Io so come si vive
e so che il basso mormorante volgo
impegnati ci rende a far da eroi.
E veramente il conte Baccellone,
la di cui nobiltade in alto sale,
un eroe può chiamarsi originale.
Vuo’ parlarvi, marchese. Contessina,
                              Io v’obbedisco.
                                         (Per voi languisco).
Chi nasce grande ha la virtude infusa.
che adornano l’illustre mente mia,
evvi l’astrologia. Conosco appieno
il vostro cor. Io dalle vostre ciglia
conosco che adorate la mia figlia.
                         Marchesin, non arrossite.
La contessa mia figlia aspirar puote
ad un prencipe, a un duca e forse a un re;
Conte, grazie vi rendo e a voi m’inchino.
Ecco la baccio col maggior rispetto.
Per mio genero e figlio ora vi accetto.
d’aver una mia figlia per consorte.
                         Che vuoi?
                                              Gh’è ’l sior Pancrazio
                                           Che vuol costui?
tratto con questi vili uomini abbietti;
non san la civiltà; digli che aspetti.
(Oh, se sapesse ch’è mio padre!)
                                                             Adunque
attenderò del vostro illustre grado
                                          Ed io da Giove.
                                          Vi do licenza.
Oh che muso badial da cicisbeo. (Parte)
                                    Tutti son vili
a paragon di noi; le genti basse
sono invidiose, prosontuose o ladre.
(Bella risposta ottenirà mio padre). (Parte)
Costui che mai vorrà? Avrà bisogno
prottegge tutti il conte Baccellone.
M’inchino al signor conte.
                                                 Addio mercante.
                                      Dite, che volete?
Bacciatemi la veste ed esponete.
(Maledetta superbia). Grazie, grazie,
di un onor così grande io non son degno.
Io son chi sono e pur d’ognun mi degno.
Effetto di bontà; dunque in bon grado
accetterà un’offerta o per dir meglio
un’instanza ch’io porto...
                                              Eh no; dovete
                                 Come comanda.
Offerte a me? Sarebbe un’insolenza.
(Adesso adesso io perdo la pazienza).
Su via parlate, via, che non ho tempo
                                     Tosto mi sbrigo.
                                      Che asinaccio!
Io ho una contessina illustre figlia,
                                    Ed anco altezza
Questo titolo invan voi non gettate.
                                                 Un bottegaro,
ignorante, plebeo, senza creanza.
(Mi vien voglia di dargli un piè in la panza).
                                     Doppo cotante
inutil veggo andar più avanti.
                                                       Ed io
                                    Via.
                                              Dunque ascoltate.
La vostra contessina illustre figlia,
la illustrissima figlia io vi domando,
fra essa e il mio figliol vile e plebeo.
Ah prosontuoso, ah temerario! A forza
trattengo di lordar le scarpe mie
nella schienaccia tua. Quest’è un affronto
che soffrir non si può. Servi, canaglia,
ove siete, venite. Io da un balcone
                                     Piano di grazia,
non tanta furia, signor conte mio;
si sa ben chi voi siete e chi son io.
Tu sei un mercenario, io cavaliero.
Cavaliero di quei da dieci al soldo,
fatto ricco facendo il manigoldo.
Vecchio, ti compatisco; rimbambisci,
                                         Io so che alfine
vi perderei del mio dando un figliuolo
ad una figlia d’un villan rifatto.
Rider mi fai, povero babuino.
degna prole del mio nobile tralcio
Va’, che il padre tu sei de’ mamaluchi.
Oh villan maledetto! Io voglio certo
                                  Elà buon vecchio.
Che volete da me cattiva giovine?
che me chiese per moglie a vostro figlio?
                               Brutto asinone,
una mia pari al figlio d’un mercante!
Merta ella veramente un uom regnante.
                                 E ben, la sorte
farà giustizia al merto senza pari.
Sposerà il re di cope o di denari.
                                               Oh si figuri,
della sua nobiltà l’alto tesoro.
                                      Che mai pretende?
delle mie nozze non sarebbe degno.
Illustrissima sì, farlo m’impegno.
Figlio, l’abbiamo fatta bella.
                                                    Il dissi
                                   Negarla è il meno
ma i strapazzi, le ingiurie? Ah giuro al cielo,
                                    Che n’ha da fare?
                                      Lascia per ora
d’amoreggiar collei; poscia col tempo
penseremo la via di vendicarci.
Ah caro padre, eccomi a’ vostri piedi.
ti darebbe il lasciarla un sol momento.
                       Purtroppo è ver ma quello
che mi tormenta più si è la promessa
da Milano le prove in quantità
Oh grande amor di padre! Oh bel ripiego
mi suggerisce a tuo favor la mente!
Vanne, attendimi in casa; anch’io fra poco
                        Ditemi, a qual partito
                                           Io nulla ancora
ti voglio dir. Va’ via curioso. Oh quanto,
Senti... Non lo vuo’ dir. Va’; lo saprai.
Di voi mi fido, attenderò impaziente,
padre, del vostro amor sicure prove.
Al tuo favor mi raccomando, o Giove. (Parte)
La voglio far; benché in età avanzata
ho lo spirito pronto; e saprò bene
la finzion sostener. Sì, di Lindoro,
che marchese si finse, anch’io il marchese
padre mi fingerò. Cangierò vesti;
cangierò la favella e nell’aspetto
trasformarmi saprò. Ah se mi riesce
se deludo il superbo, io son contento.
Ma se scoperto poi... Eh farò in modo
che scoprir non potrà... Però può darsi...
La voce... la pronuncia... E che sarà?
Non ho timor... Facciasi... E pur io sento
che se non è timor, qualcosa egli è.
                                            La lassa almanco
che chiappa un po’ de fiao!
                                                   Spicchiati; offendo
l’alta mia nobiltà, se lungamente
mi trattengo a parlar con bassa gente.
Se no la vuol parlar con zente bassa,
sotto le scarpe metterò i pontelli
o la vagga a parlar coi campanieli.
                                  Se la se contenta
gh’ho un non so che da darghe.
                                                          E che?
                                                                         Ho paura
Vuola, patrona mia, che ghe la daga?
Mi fa rider costui; ma ch’è mai questo
                                Un sior tutto farina
da portarghe el m’ha dà sta letterina.
Una lettera a me? Non la ricuso,
ma se qualche plebeo l’avrà vergata,
ad esso tu la renderai stracciata.
Se scritta l’averà qualche plebeo,
la manderemo in Roma al Culiseo.
È il duca d’Albanuova. Oh non ricuso
dell’illustre soggetto il degno foglio;
(Oh femmina bugiarda! Oh ciel, che sento?)
Veramente è compito. In miglior forma
scrivere non si può. Conosce bene
così finisce: «Illustre dama, addio».
                                             Sala l’usanza
                                              Io non la so.
Se la permette ghe la insegnerò.
a far el battifuogo o sia el mezan
per usanza ghe va la bonaman.
a suo tempo saprò; per or ti basti
l’onor del mio benigno aggradimento.
Via bacciami la mano, io mi contento.
donca la man ghe baso ma de cuor.
digli che le sue grazie a me son care,
che poi risponderò, che la mia fede
ma che per cicisbeo non lo ricuso,
poiché già tal di mia famiglia è l’uso.
La parla ben, la parla ben da seno.
tu le lettere porti alla contessa?
Cossa voleu saver sior canapiolo?
Sior scartozzo de pevere muschià
via caveve de qua, se no ve zuro
che ve batto la panza a mo’ tamburo.
Ah! Temerario, a me? (Mette mano)
                                           Se catteremo.
Voi su la schena scavezzarte un remo. (Parte)
Sempre non fuggirai. Ma l’ira mia
non è contra costui. L’empia, l’infida
mi sta sul cor. Come del cicisbeo
si provede così pria del marito?
Soffra chi vuol; soffrirlo non vogl’io,
no, non la voglio più. Col padre unito,
di cui mi piacque l’invenzion bizzarra,
vendicarmi vogl’io de’ torti miei.
Oh! Sesso femminil quant’empio sei!
Camarieri, staffieri, cuochi, sguatari,
s’attende in questo giorno da Milano
il celebre marchese Cavromano.
di dar la contessina al marchesino,
ora che vien dal proprio suo paese
a dimandarla il genitor marchese.
Lustrissimo patron allegramente.
                                  Forestieri.
                                                        È forse
del marchese Lindoro il genitore?
                        È in gondola?
                                                   In burchiello
che una barca la par de comedianti.
È lui senz’altro. Vanne tu Gazzetta,
Ghe mancava de più st’altra caia. (Parte)
fatele riverenza ed a lui dite
io lo faccio introdur senz’anticamera.
e qual si tratti un cavaglier par mio.
Al conte Baccellon Parabolano
or s’inchina il marchese Cavromano.
O degno sol, cui d’umiliarsi or degni
il conte Baccellon Parabolano,
a voi m’inchino e datemi la mano.
Mano degna di stringere uno scettro.
Dite marchese mio, come si parla
                                  Non passa giorno
non si esalti la vostra nobiltà.
Ciascun parla di voi; tutto il paese
ed ogni dama ad obbedirvi aspira.
Converrà poi ch’io dia piacere al mondo,
                                         Son io venuto
già sapete perché. Grazie vi rendo
dell’onor che voi fate al figlio mio.
ho faticato a superar gl’impegni
che tenevo in Milano, oh se sapeste
conte, ve lo so dir che stupireste.
Ognun voleva parentarsi meco.
sino il governator di Mezzomiglio,
per genero volean tutti mio figlio.
E voi scieglieste me? Si vede bene
nel vostro rubicondo almo sembiante
che della nobiltà voi siete amante.
Amo li pari miei. So che voi siete
un titolo mostrar posso ogni giorno.
Poffarbacco baccon, quest’è ben molto.
Vi dico il ver, non son mendace o stolto.
apprimi quel baullo e qua mi recca
Non s’incomodi no, lo credo a lei.
Non sono un impostor. Mirate qua,
l’arbore è questo di mia nobiltà.
Ecco l’autor del ceppo mio: Dindione
da cui per linea retta anch’io discendo.
Sovra il regno degl’Ovi anch’io pretendo.
                          Ecco il mio marchesato
fra cavoli e verzotti situato.
il di cui feudatario fu appiccato.
Mirate quattro titoli in un foglio,
conte, duca, marchese e cavaliero.
un cane, un mulo, un gatto ed un braghiero.
                                        Sì, vi pare strano?
Mirate qui quest’altro marchesato
ch’ha per arma le corna d’un castrato;
veder ciò ch’io possiedo? Ecco raccolto
in questa breve carta il poco e il molto.
trenta e più mila scudi sol di paglia,
settecento villaggi all’Ombelico,
in luogo che si chiama il Precipizio
e ventisei contadi all’Orificio.
Non voglio sentir altro. Son contento,
vado a chiamar la contessina; io voglio
l’onor di rimirar i lumi suoi.
S’è bella come voi, sarà bellissima
come voi siete, sarà serenissima.
Bella, bella non è ma può passare.
È vezzosa e gallante e sa ben fare.
Se l’ha bevuta il conte; oh bene oh bene,
Pancrazio a noi, la contessina or viene.
all’illustre marchese Cavromano.
la sorte avrà di divenir mia nuora.
Sì, mia sorte sarà. Ma vostro figlio,
potrà anch’egli chiamarsi fortunato.
in cui felicità non manca alcuna,
vedrem ripartorita la fortuna.
Nobilissimo mio suocero amato,
come ben vi trattò sì lungo viaggio?
la poltrona, la tavola, il scrittorio,
la credenza, il cammin, la tavoletta
e con rispetto ancora la seggetta.
                                          Era tirato,
da sessanta cavalli d’Ungheria.
Come fece a passar per tante strade,
Ho fatto delle cose prodigiose.
A forza d’acquavite ho rotto i monti,
e gli alberi tagliati, io non v’inganno,
potrian scaldar cento famiglie un anno.
                                      Tutto s’ottiene
per farmi voler ben dalle persone,
ogn’anno getterò più d’un millione.
(Egli è ricco sfondato). Ecco mirate
                                             Egli d’Europa
è il cavalier più ricco e non lo passa
nei tesori serbati alle sue mani
altro che il gran signor degli Ottomani.
mentre a parte sarò de’ suoi tesori!)
                                 Marchesino figlio.
Più bello sei da che non ti ho veduto.
                                            Eh mia signora,
se lo sposo vi reca affanno o tedio,
il duca cicisbeo porga il rimedio.
                                   Come, vi sdegnate
perché di cicisbeo m’ho proveduto?
Di cicisbeo non so né d’altra cosa;
so ch’io voglio esser sol, signora sposa.
                                            E che parlate
Consolo il figlio negli affanni suoi.
a te quale bellezza il ciel destina;
che volto, che maestà, che ciglio altero.
l’alta sua nobiltà si scorge e vede.
(Dico per minchionarla e non s’avvede).
a poco a poco a imbestialire avvezza.
S’io non vi amassi, non sarei geloso.
né di voi né di me. Mi fate torto
So distinguere il tempo, il come e il quando.
di me giungesse a giudicar la gente,
s’io non avessi un cavalier servente?
                                    Pensate male.
voi siete un incivile, io un’ignorante.
Dica ognun ciò che vuole, a voi sol basti
                           In quanto a questo poi
chiaro vi parlerò. V’amo, vi adoro
oscurar voglia il vostro strano umore
alla mia nobiltà ceda l’amore.
                                        Inver gran fede
                                        Dunque Lindoro
se non soffre il servente è abbandonato?
se onesta servitude altrui concede?
                                        Che bella fede!
                                         Andate via.
                                          Crudele...
                                                              Ingrato...
Se vedeste il mio cor quanto v’adora.
Siete meco indiscreto e v’amo ancora.
                                    Sarà poi vero...
Ch’io v’abbia da lasciar...
                                               Ch’io v’abbandoni...
                                              Aimè, ch’io moro.
                                     Vien mio tesoro;
                                 No.
                                           Ti contenti
                                   Sì mi contento.
                                        Bando al tormento.
che non lascino entrar gente ordinaria.
nozze si devon far della mia figlia
tutto il paese inarcherà le ciglia.
Venga la nobiltà; ma non s’ammetta
al grande onor della veduta nostra
chi almeno dieci titoli non mostra.
                                            Perché?
della so nobiltà se ghe domanda
i mua descorso e i va da un’altra banda.
che pareva marchesi e prenciponi
e i ho scoverti alfin birbi e drettoni. (Parte)
Costui non dice male, anch’io son nato
in bassissimo stato e pur veggendo
che ognun mi riverisce e mi fa onore,
parmi talor ch’io sia nato un signore.
                                  Gran genitore
a voi s’umilia lo rispetto mio.
Suocero illustre, a voi m’inchino anch’io.
Porgetevi la destra, indi attendete
                                   (Ah ch’io pavento
da tal finzion qualche sinistro evento).
                                             Olà, che vuoi?
Che fai qui, come entrasti? Olà Gazzetta.
gli ordini miei? Pancrazio come entrò?
Come ch’el sia vegnuo mi no lo so.
                                 Come! Non puote
Non si tratta così. Mi meraviglio.
                                            Il poveruomo
                             Dov’è tuo figlio?
                                                             È quello.
                   Sì.
                           Va’ via. Come facesti
misero ad impazzir? Codesto è figlio
che venne in casa mia sin da Milano.
Fa’ che venga, Gazzetta, e sia presente
Tu sarai testimonio. (A Pancrazio)
                                        Un vil plebeo?
                                 (Cresce l’imbroglio).
Ho cercà e recercà per tutti i busi,
E solo s’ha trovà sul taolin
l’abito ch’el portava e ’l perucchin.
                                                      Tutto saprete.
venendo da Milan per valli e monti
spianò campagne e fabbricò dei ponti.
              Come! Lindoro.
                                             A’ vostri piedi
Levati su di là, vile, plebeo,
che non sei degno di bacciargli i piedi.
Troppo la nobiltà del conte offende
che d’aver la sua figlia e spera e prega.
Vanne figlio plebeo, vanne a bottega.
                         Son morta.
                                                (Oh che bagian!)
(El ghe l’ha fatta ben da cortesan!)
                                               Oh dei! Contessa
                                           Oh che m’avete,
Di me che si dirà? Figlia sgraziata!
Figlia per l’onor tuo questo è il partito,
Lindoro qual si sia, sia tuo marito.
Amor fa de’ gran colpi. Io non dissento
                                         Piano di grazia,
                                           Sei fortunato.
Sarai con il mio sangue apparentato.
Eh prendete signor miglior consiglio,
l’illustrissima vostra contessina.
                                Fatto è l’imbroglio.
                                            Ed io non voglio.
(Ah perfido! M’insulta ed ha ragione).
Deh padre per pietà, deh permettete
ch’io sposi la contessa. Io senza lei
                                 Ma la contessa
di accrescer nobiltà non è mai sazio
il figlio sdegnerà d’un vil Pancrazio.
supera nel mio seno ogni riguardo.
Quando dunque è così, via mi contento.
                                   No no, fermate.
privo non sia lo sposo di mia figlia,
quattro titoli miei gli cedo e dono.
I titoli signor non danno pane.
Deh contessina mia, deh perdonate
Non lo rammento più, siete mio sposo.

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